Dieci anni dopo

22 Lug 2011 0 Commenti

by fabadmin in

Esattamente dieci anni fa era domenica notte, quasi lunedì, a quest'ora ero su un treno. Nello scrivere treno ho appena sbagliato e ho scritto terno. Mai lapsus di scrittura fu più azzeccato. Fu un terno davvero. Dovevo andare a dormire alla scuola Diaz di Genova quella sera. Poi, per una decisione superficiale, una specie di insofferenza alla tensione, decisi che dopo 3 giorni di agitazione, violenza subita, ansia costante, chilometri di marcia, sangue a zampilli, cattiveria, raggiri, percosse, lacrimogeni ad angolo zero, solidarietà dalle finestre, coraggio, passione, determinazione, i pacchi di bicarbonato sparso sui fazzolettini umidi, occhi rossi, bruciore, mascherine sul volto, porte che si aprivano per nasconderci, uomini armati che ci aspettavano carchi di odio.... bé ero stanco, fisicamente e psicologicamente provato, volevo scappare, avevo resistito fino all'ultimo giorno, l'ultimo corteo, l'ultimo chilometro, l'ultimo manganello, l'ultimo naso rotto, l'ultimo orrore, insomma, era davvero ora di tornare a casa. Ma casa intesa come posto sicuro, un posto dove recuperare una normalità. Quella normalità fatta dalle cose stabili. Per cominciare avevo voglia di sicurezza. Sì, stavo cominciando ad accusare la paura, repressa per tre giorni, nascosta, inascoltata, allontanata, ermeticamente inscatolata, ignorata per poter RESISTERE, per non darla vinta.

Ero rimasto fino alla fine, e ora, avevo deciso di salire su quel treno. Genova non aveva più bisogno di me. I miei compagni li avevo persi, il telefonino era scarico. Sembrava un'apocalisse, un day after. Il treno per Roma era là. Un treno vecchiotto, in attesa, sembrava un mulo carico, stanco ancor prima di partire, esausto quasi quanto noi. Noi, una folla immensa. Quando dicevamo "siam pochi" si parlava di qualche migliaio. E proprio alcune migliaia di persone stavano salendo su quel treno. Più che un treno sembrava un carro bestiame. Se non ci fossero stati gli scompartimenti e qualche suppellettile, per le facce, i corpi, e le cere, quel treno poteva essere scambiato per quei treni per i campi nazisti della morte. Oppure sembrava uno di quei treni di migranti, di quelli che dal settentrione del mondo andavano verso il sud Italia.
Insomma, sembrava comunque un treno di reduci di guerra, su questo non c'è ombra di dubbio. E di cose simili alla guerra ne avevamo viste, e come se non ne avevamo viste. Solo io, ho visto donne vistosamente incinte martoriate di manganellate su qualunque parte del corpo. Disabili presi e bloccati con violenza in cabine telefoniche, un celerino gli teneva fermi gli arti superiori e in due glieli spaccavano a manganellate. Ho visto il mio gruppo di poche migliaia di persone silureggiato dall'alto dagli elicotteri con i lacrimogeni usati a modo di razzi, su una spiaggetta che pareva un rifugio dall'inferno. Altro che rifugio: ci avevano seguito fino a là, e avendo paura di scendere le scale uno sbirro per volta per arrivare a noi, avevano pensato vigliaccamente di chiamare un elicottero per cannoneggiarci coi lacrimogeni. Ho visto un ragazzo rifugiarsi, come me, in un portone. Solo che lui si è fatto convincere ad uscire, i celerini lo rassicuravano, lo invitavano ad uscire, con calma, senza caschi, coi manganelli a terra per persuaderlo. Una volta uscito lo hanno tenuto in tre e in 5 lo hanno massacrato e lasciato nel suo sangue svenuto. E io ero di fronte, io non ero uscito, ero solo stato meno ingenuo. Ero ancora intero. Ho visto l'ospedale da campo sfondato dalla celere, e una volta dentro hanno massacrato feriti, infermieri e medici, buttando all'aria qualunque cosa si trovasse entro dieci metri da ognuno di loro, vestiti come degli astronauti. Ho visto compagni andare a comprare le sigarette, di sera, quando tutto era finito tutto era calmo, si allontanavano dal nostro piazzale in 4-5 per una birra o un panino. Li ho visti tornare coi visi insanguinati e i nasi devastati dai manganelli della celere che gli si parava davanti, da bravi camorristi quali sono, per massacrarli senza una ragione, ma solo per sfogare la rabbia, tutta la rabbia con la quale li caricavano, in mille modi comportamentisti, riducendoli a pitbull, uomini in uniforme fuori, ma cani rabbiosi dentro.
Ho visto quelli della sicurezza CGIL massacrare i Black Block, e noi che prendevamo le botte grazie alle loro incursioni, svolte sempre accanto ai nostri cortei, noi zitti, esausti, non siamo intervenuti per fermare la sicurezza CGIL.
Ho visto i TG nazionali parlare ossessivamente e strumentalmente di qualche scaramuccia fra polizia e Black Block e di alcuni danni alle cose, alle banche, ai negozi, alle auto, ignorando del tutto quel che stava davvero accadendo davanti ai miei stessi occhi, e tutto solo per poter legittimare la sospensione di democrazia che avvenne a Genova in quei giorni.
Ho visto gli elicotteri roteare tutta la notte, per tre lunghe notti, a 30 metri di altezza dai sacchi a pelo dove dormivamo in decine di migliaia, per non farci riposare, per tenerci all'erta, per provocarci, per mostrare i muscoli, per disturbare, coi riflettori puntati sui nostri visi e la puzza di carburante che nauseava i nostri sogni.
 
Ho sentito Carlo Giuliani morire, in una piazza a 150 metri da dove ero in quel momento.
 
Ho visto cortei festosi, danzanti, bande musicali, un intero popolo che chiedeva attenzione per dire a gran voce che gli 8 della terra avrebbero dovuto incontrarsi per discutere e risolvere altri problemi che non quelli commerciali.
 
Cantavamo Bella Ciao.
 
Chiedevamo attenzione per l'inquinamento, la povertà, le guerre dimenticate, i diritti civili negati, lo sfruttamento.
 
Poco più di 10 anni prima era caduto il muro di Berlino, ma i motivi che avevano condotto il mondo ad alzarlo erano ancora in piedi, e cioè una grande richiesta, una enorme domanda, una sete smisurata di giustizia.
 
Ciò che non ho visto invece sono state quelle ore terribili a Genova nella notte della Diaz, dove volevo andare a dormire.
Salii sul treno invece, e molti miei compagni furono massacrati senza alcuna ragione.
Non pensai a nulla quella notte. Scambiai mezz'ora di chiacchiere con alcuni adulti sulla sessantina. Erano degli ex-sessantottini. Dissero "Mai, mai così, mai stato così, mai niente del genere". Quella notte dormii profondamente, steso insieme a non so quanti altri nel corridoio. Tanti, troppi eravamo su quel treno coi cessi intasati e gli scompartimenti occupati da persone che dormivano fin su i ripiani dei bagagli.
Avevo 26 anni. Arrivai a casa con mille emozioni. Fiero e incazzato, prode ma triste, profugo, rifugiato, arrabbiato, mortificato, ancora stanco.
 
La mia donna mi abbracciò, mi strinse, a lungo, lo fece credo nello stesso modo in cui lo fece mia nonna con mio nonno quando si ritrovarono dopo i bombardamenti. Mi strinse a lungo, senza parlare. Presi un caffè. Tutto appariva calmo. Là, a Roma dove ero ritornato, lontano dai potenti, lo Stato, quella specie di padre, rimetteva la sua maschera rassicurante sul suo mostruoso viso. Poi chiamai i miei. Dovevo dire loro che stavo bene, che non ero in caserma, non avevo dormito alla Diaz, dove i miei compagni erano stati massacrati senza alcuna ragione da uomini trasformati in belve.