Posizione politica di Harambee sulle ragioni della manifestazione del 15 ottobre a Roma e sui fatti accaduti quel giorno.

10 Nov 2011 0 Commenti

by fabadmin

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La grande manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma dei cosiddetti "Indignati", segna un punto di svolta, una pietra miliare nella storia politica e civile di questo paese. Un numero enorme di liberi cittadini, non inquadrati nelle fila dei partiti istituzionali, sono scesi in corteo per affermare insieme che è arrivato il momento di un cambiamento sostanziale nell’organizzazione della cosa pubblica e comune, del convivere, del pensare lo stare insieme. Una manifestazione che presenta una grande specificità. Essa racchiude infatti una molteplicità di sigle autonome e diverse le une dalle altre. Diversa, perché si svolge in contemporanea in tutto il mondo e quindi si proietta fuori ed oltre la dimensione nazionale. Benché di carattere fortemente globale, il nostro dato nazionale non può essere considerato una variabile irrilevante e trascurabile in un’analisi politica accurata del fenomeno. I quasi venti anni di berlusconismo, con la complicità di una alternativa debole sia politicamente che moralmente, hanno portato i cittadini a gridare con indignazione che così avanti non si può andare. Harambee aderisce, sostiene e fa proprio questo sentimento diffuso. Non è difficile immaginare cosa vada profondamente riformato. È il sistema della partecipazione e dei partiti, i quali come è giusto che sia e come infatti accade in tutte le democrazie, sono i gestori della politica e dello Stato. Allo stato dei fatti essi sono delle organizzazioni chiuse e soprattutto esclusive, dove, grazie ad una legge elettorale liberticida, si decide arbitrariamente chi entra nel massimo organo gestore della vita pubblica: il parlamento. La democrazia rappresentativa, così come la conosciamo, sta mostrando tutti i suoi limiti e va profondamente rivista. I cittadini non hanno più nessuna capacità di influenza sui partiti. Essi non sono più condizionabili. Entrare in un partito, nella migliore delle ipotesi, vuol dire pagare una tessera e partecipare una volta ogni tre anni alla individuazione di un coordinatore territoriale. Davvero Troppo poco. Questa libertà, questo potere senza contrappesi delle oligarchie presenti nei partiti lasciano l’opportunità di cadere nella tentazione di muovere le leve del potere non in nome, per conto e nell’interesse dei deleganti, ma per fini personali, individuali, senza possibilità di rimozione alcuna. Una condizione sbilanciata, libertina, troppo ghiotta per non aspettarsi una degenerazione delle classi dirigenti politiche. Va aggiunto uno stato morboso del sistema televisivo italiano che pone i cittadini in uno stato di confusione politica senza precedenti. Stando alle fonti Censis (http://goo.gl/clJ16) di luglio 2011 l'80,9% della popolazione utilizza i Tg per informarsi. Dei sette Tg che raccolgono la maggior percentuale di ascolto, solo i due più poveri di audience (LA7 e TG3) possono dichiararsi indipendenti dal governo e dal suo presidente. Gli altri cinque, i più seguiti, ne sono dirette emanazioni. La cultura popolare inoltre è in preda ad una vistosa deriva leaderistica che fa ragionevolmente temere il peggio. Argomento principe del 15 ottobre è stato ed è la grande crisi su cui si sono già spesi fiumi di inchiostro da parte di persone molto autorevoli in materia economica e finanziaria. Un dato su tutti. La crisi è stata creata, gestita ma non pagata dagli stessi e identici soggetti: oligarchie economiche globali. La gente comincia a percepire nitidamente che il sistema economico globale è guasto. Un sistema basato essenzialmente su privatizzazioni e liberalizzazioni, più sfruttamento, più beni privati e meno beni comuni, più precarietà e meno welfare. Questo modello di sviluppo planetario va cambiato. Chi paga la crisi economica infatti sono le classi sociali lavoratrici che come prezzo dello sfacelo

assistono impotenti alla precarizzazione di tutta la loro vita. Sempre nel luglio 2011 l’Istat rende noto il rapporto sulla povertà nel paese: in Italia nel 2010 risulta povera o quasi povera circa una famiglia su cinque. Si tratta del 18,6% dei nuclei (l'11% sono quelli poveri e il 7,6% sono quelli quasi poveri). Questi sono i dati nazionali. Quelli globali invece ci raccontano di una concentrazione irragionevole delle risorse. Il 40% della ricchezza globale viene infatti controllato dall’1% della popolazione. Un rapporto inaccettabile. Per questi motivi si capisce perché gli slogan "Noi la crisi non la paghiamo" e "Noi il debito non lo paghiamo" sintetizzino perfettamente il  sentimento che ha mosso l'intera manifestazione.In questo clima non è difficile immaginare che coloro che guardano con favore a metodi violenti e rivoltosi possano trovare sempre più consenso in quella fascia di popolazione più debole, individui privati della speranza di giorni migliori.
Si aggiunge, come un suono sinistro, il contenuto delle intercettazioni fra Silvio Berlusconi, primo ministro, e il suo faccendiere Lavitola, attualmente latitante dal 1 settembre 2011. Berlusconi durante il dialogo paventa l’opportunità di portare in piazza milioni di persone per dare attacco al palazzo di giustizia di Milano, dove il premier è indagato penalmente, e la sede di La Repubblica, giornale di massa non allineato alle politiche del primo ministro. La giornata del 15 ottobre ha visto la manifestazione concepita come pacifica e non violenta trasformata in un campo di battaglia ad opera di 3000 rivoltosi quasi tutti italiani (fonte del ministero degli interni come da relazione del ministro Maroni alla Camera dei Deputati il 18 ottobre 2011).
Roma è stata l’unica tra le più di 1000 città in 82 paesi (fonte http://15october.net) a vivere gli scontri a cui abbiamo assistito. Degli scontri, dei feriti, dei danni, dei disagi, e di tutte le conseguenze delle violenze del 15 ottobre a Roma c’è solo una persona che deve rispondere in quanto primo responsabile: il ministro degli interni. Roberto Maroni deve riconoscere l’incapacità del suo ministero a gestire situazioni come queste. Un ministro che non sa fronteggiare e prevenire 3000 rivoltosi evitando le violenze e la guerriglia urbana, ha solo una opzione: lasciare il suo incarico e dimettersi. Nella peggiore delle ipotesi, a voler pensare a male, la rivolta è stata invece lasciata libera di scoppiare in modo da distogliere l’attenzione della pubblica opinione e dei media dai contenuti dei manifestanti evidentemente troppo scomodi per il governo in carica. Arrivare tutti in piazza San Giovanni avrebbe reso tangibile e gigantesco il dissenso sociale e politico verso un governo che, come Harambee ha già espresso, non ha più nulla da dire. Senza considerare il fatto che se il corteo fosse arrivato regolarmente in piazza San Giovanni non si può escludere che moltissimi dei partecipanti avrebbero
pensato di occupare la piazza in forma permanente con tende e fornelli come già accaduto in altre città del mondo.
Considerando tutte le variabili qui espresse e altre note e ovvie, Harambee - Movimento per i Beni Comuni inizia a vedere nei rivoltosi non più e non esclusivamente, come poteva accadere negli anni passati, uno paruto gruppo di teppisti e delinquenti pronti a scendere in piazza per sfogare pulsioni e aggressività. Non sono più soltanto i classici irrequieti di ogni sorta e figli di papà che vanno a giocare alla guerra. Le violenze accadute sono, invece, soprattutto il frutto di una disperazione diffusa. Meglio se non ci fossero state, ma nell'attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Harambee intravede oggi tra i 3000 rivoltosi un corpo sociale preciso. Un gruppo sociologicamente identificato, variegato nella scolarizzazione ma contraddistinto univocamente dalla giovane età (venti, trenta e quarant’anni), dalla precarietà di vita e dalla disperazione. La rabbia, la miseria, l’insoddisfazione, il disagio cominciano a politicizzarsi. Harambee continua a ritenere che, sulla base delle condizioni politiche e culturali date, il proprio metodo sia quello non violento. Abbiamo ancora dei meccanismi e dei sistemi democratici tali da poter esercitare serenamente il condizionamento politico con la forza dell’opinione e della persuasione. Le intercettazioni telefoniche sopra menzionate ci restituiscono un’immagine sostanziale senza precedenti di un presidente del consiglio eversivo al pari, se non peggiore perché più potente, di quello che nell’opinione pubblica passa come Black Block. Ciò nonostante Harambee pensa che una bonifica democratica dell’Italia sia ancora possibile senza impiegare violenza. Il cambiamento globale è possibile con la parola. I mezzi di comunicazione globali e liberi, specialmente quelli di ultima generazione, permettono di veicolare idee, proposte e contenuti svincolati dalla centralizzazione e dal controllo del sistema mediatico imperante. Riteniamo che le posizioni insurrezionaliste che prevedono un "corpo a corpo" con lo stato per arrivare alla rivoluzione e che hanno generato gli scontri non tengano in conto la realtà del potere contemporaneo, che è flessibile e liquido. Le cose non si cambiano con un attacco frontale. Per intenderci, tagliare la testa a Berlusconi oggi non vuol dire fare la rivoluzione.
Harambee condanna senza mezzi termini il comportamento di certe frange rivoltose che mischiandosi ai cortei pacifici impediscono consapevolmente a chi non la pensa come loro di agire legittimamente il proprio metodo non violento. È un gesto di arroganza e prepotenza culturale che si traducenell’imporre un metodo di una minoranza ad una maggioranza dissenziente. Tuttavia ad oggi Harambee non ritiene che il metodo da utilizzare verso chi usa la violenza debba essere la censura. Da un'attenta analisi e da una riflessione politica matura, Harambee vede nei rivoltosi una frangia che, nel perseguire il medesimo nostro obiettivo, ha scelto un metodo che semplicemente noi non condividiamo. Classificare quel blocco come mera delinquenza e teppismo rappresenta una miopia d’analisi imperdonabile. Con loro c’è bisogno di un dialogo. Serve interloquire per una serie di ragioni precise. Prima di tutto per dissuadere la pratica della rivolta violenta, troppo spesso poi agita ai danni di cittadini non responsabili politicamente delle condizioni vigenti. Non esiste confronto senza reciproco riconoscimento. In secondo luogo per coordinare insieme una lotta al sistema dato che lascia versare nella povertà, nellaprecarietà e nella disperazione le nuove generazioni che vanno dai venti ai quarant’anni. Ci riferiamo al modello economico globale vigente che si configura come un nuovo quadro di schiavismo sociale, politico ed economico. Uno scontro sovranazionale fra classi sociali in cui i precari subiscono la strisciante complicità e la violenza politica dei non precari, delle loro istituzioni e dei loro rappresentanti.
Dopo il 15 ottobre c’è ora bisogno di passare ad una fase costituente, di unire le forze, di incontrarci e discutere, di proporre e creare alternative all’attuale sistema, di costruire e di sperimentare insieme. Senza un livello molto più elevato di democrazia diretta dalla crisi non se ne esce. E’ il salto di qualità per diventare una democrazia nuova, più evoluta. Solo da questo grande laboratorio sociale potranno venire le soluzioni per affrontare e superare i problemi che oggi ci pongono in sofferenza. La conclusione politica di Harambee è quindi quella di un dialogo fra tutte le forze che vedono in questo sistema un avversario contro cui lottare per poterlo condizionare, migliorando la vita di tutti i cittadini, abbattendo privilegi e difendendo diritti e uguaglianza con l’esercizio di una metodologia non violenta. 
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